Psicologia del selfie
Il selfie, termine derivato dalla lingua inglese, è un autoscatto realizzato attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, o altri dispositivi digitali puntati verso sé stessi o verso uno specchio, e condiviso sui social network. Proprio questa dimensione social e l'assenza di peculiarità o intenzioni artistiche, distinguono il selfie dall'autoritratto fotografico.
Necessaria discriminazione per garantire una minima dignità a chi ha reso del proprio lavoro fotografico una ricerca artistica e consapevole. Ciò non vuol dire che il selfie non porti con sé alcuna ricerca o non comunichi nulla, tuttavia modalità e contenuti sono largamente dibattuti.
Il selfie è, oggi più che mai, la moderna consapevolezza della nostra essenza. Es-senza, che conduce con sé la mancanza di un essere vero e significativo. Si cerca di provare al mondo la propria esistenza e valenza, mostrandosi nel profilo migliore. Non è mero narcisismo, o semplicemente compiacimento. Ci sono e cerco di farlo sapere a tutti, condividendo il mio bel viso sui social e facendone immagini “profilo” per i miei account.
Il self portrait è spesso utilizzato in ambito clinico sia nei rapporti duali di fototerapia che nei laboratori di fotografia terapeutica. Diviene uno strumento valido quando conduce a nuova consapevolezza, all'accettazione di parti fisiche che non riusciamo a riconoscere, e può essere terapico quando aiuta a integrare le diverse parti del sé. Numerosi sono gli artisti che negli anni hanno lavorato su se stessi e con la propria immagine, un lavoro che presuppone pensiero critico e creativo, metodo e disciplina. Dalla meravigliosa Francesca Woodman, alla misteriosa Vivian Maier, la nostra contemporanea Cristina Nunez.
Il primo autoritratto è stato realizzato nel 1840 da Hippolyte Bayard, che si fotografa come se si fosse suicidato, poiché vittima di un’ingiustizia giacché l'accademia di Francia premiò Daguerre, ma la storia della fotografia la conosciamo tutti. In breve, questo primo Self-portrait contiene già tutta la veridicità del legame che la fotografia ha con la vita e con la morte, il non essere più.
A forza ci si spinge a “certificare la propria presenza” facendosi in realtà portavoce dell’antico segreto della fotografia: "La morte piatta".
Oggigiorno, il gesto compulsivo e reiterato appartenente oramai ai più, pare essere un gesto privo di ogni vera analisi consapevole che conduce solo a molte fotografie da cestinare. (Lieta di non credere che la fotografia sia strettamente referenziale dell’oggetto fotografato, anche se il dubbio oramai sorge). Forse, il tentativo di bloccare e fissare la propria identità, cercando di fermare e immortalare il momento, sarebbe il tentativo di reagire ai tempi della precarietà e dell’insicurezza materiale ed emotiva, oserei anche affettiva.
Aumenta il gesto ripetitivo di affermazione, di commemorazione, di messa in evidenza: come se mostrarsi, farsi vedere, sia la prova della propria esistenza, della propria visibilità agli altri, e di accettazione sociale. La considerazione che si ha di se stessi va di pari passo ai “mi piace” collezionati su facebook, instagram e altri social.
Il selfie pare strettamente ricollegato ai meccanismi psicologici di identità, tuttavia non appartiene alla classica dialettica tra se reale e, se ideale, non serve cioè a quell’esercizio di confronto e crescita tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Sembrerebbe si sia generata un altro tipo di identità: l’identità condivisa, quella cioè virtuale. Difficile e faticosa anche da dover gestire, perché spesso distante dalla verità.
Il selfie si configura come una vera e propria attività di impression management: moltitudine di scatti in serie, alla ricerca della posa, dell’espressione, della luce e dell’inquadratura migliore. In seguito si applicano filtri, effetti grafici, ritocchi. E solo alla fine, spesso dopo diversi minuti dal suo scatto, la foto migliore viene condivisa, magari taggando gli altri presenti e il posto in cui ci si trova. Ed ecco creato l’avatar.
Molto spesso alla base vi è il bisogno narcisistico associato a intensa ambizione e a scarsi valori: miti esteriori di successo, ricchezza, prestigio e obiettivi superficiali di bellezza e potere. L’incapacità di fronteggiare la frustrazione, continua ricerca di conferme, vulnerabilità alle critiche, senso profondo di insicurezza superato con il tentativo di irrealistico controllo.
Uno studio condotto presso l'Università di Buffalo ha rivelato che le persone che condividono più foto nelle loro reti sociali sono quelle la cui autostima si basa principalmente sulle opinioni degli altri. Ciò significa che sono eccessivamente esposte alla valutazione altrui e il loro stato emotivo dipende in larga misura dal grado di accettazione che hanno le loro foto.
Interessante anche, lo studio dell’Università di York, il quale evidenzia come le persone tendono a costruire la loro “prima impressione” nei confronti di un altro individuo semplicemente osservando le caratteristiche dei volti esaminati sui Social Network, elaborando rapidamente un pregiudizio sul carattere della persona, e di basarsi su questa impressione per approfondire o meno la conoscenza successiva.
Verrebbe da pensare alla motivazione arcaica da cui originano i ritratti (soprattutto in pittura), il tentativo di imprigionarne l’anima, di ritrarre quel riflesso negli occhi che riconducesse alle emozioni e ai sentimenti intimi, alla parte più veritiera del soggetto. Più che all’esterno, l’attenzione era rivolta all’interno, al mondo intrinseco della persona, da scoprire, da conoscere, da rivelare, da portare alla luce. Chiaramente non sono queste le ragioni che spingono i soggetti al selfie.
Viene naturale chiedersi se l’umanità stia perdendo l’anima, il fulcro delle passioni, delle motivazioni intime, il valore personale, l’autenticità e la necessità dell’essere unico. Stiamo forse perdendo l’interesse per ciò che realmente alimenta l’essere umano, trasformandoci tutti in morti piatte, immagini usa e getta, virtuali e falsificati, vuoti e privi di reale personalità? Stiamo forse cedendo il passo ai nostri avatar, alla falsificazione della nostra identità?
Ricordo Barthes nella commovente ricerca della fotografia della madre per come lui la teneva a mente, o Lucio Dalla che va mangiando “la sua fotografia”, De Gregori che chiede se avesse ancora quella foto “in cui sorridevi e non guardavi”. Quella, proprio quella, unica, la sola che basta a esprimere il tutto, il fulcro, la complessità e la meraviglia della persona, il senso intimo che si ripercuote sugli altri e risplende coinvolgendoli. Ecco, in questa contemporanea moltitudine, quel senso si frammenta e si duplica, si moltiplica svuotandosi del reale e autentico significato del ritratto. “Nulla dies sine linea” sentenziava Plinio, sottolineando la necessità dell’esercizio quotidiano, “Nessun giorno senza un cielo” riprende Ghirri, con 365 visioni del cielo…mera esercitazione, la quale non serve a cogliere il significato reale dell’infinito, ma quantomeno a dare un senso e un indirizzo all’intera esistenza, ogni giorno deve avere un senso…ogni auto-ritratto che certifica ogni giorno deve averlo e non disperderlo.